Coltivare i bisogni: la filosofia come esperienza di vita.

 

Il 10, 11 e 12 dicembre 2021 ho avuto il piacere e l'onore di partecipare ad una tre giorni full immersion di pratiche filosofiche organizzata dall'Associazione Internazionale di Pratiche Filosofiche CECAPFI.

Di questi tempi, purtroppo, online, ma comunque stimolanti e stancanti :).

Le tematiche abbracciavano aspetti diversi in cui la filosofia può aprire il proprio sguardo. 

A me è stato chiesto di aprire una finestra su: "coltivare i bisogni; la filosofia come esperienza di vita".

Tema adatto a me da sorvolare in una quindicina di minuti di intervento, perchè la filosofia è assolutamente esperienza di vita. 

Il meeting effettivamente è stato l'occasione di riflettere  sulla mia attuale esperienza lavorativa, ritengo la più importante e significativa: l'insegnamento primario.

Ho raccontato di me osservatrice di diversi processi cognitivi, quelli più originari, uscendo dalla caverna della passiva fruizione del sapere e rendendomi conto della potenza che sta dietro lo sviluppo cognitivo di un piccolo essere umano.

Vivere il processo didattico che si dispiega nella relazione maestro-alunno è meraviglioso e magico. Quotidianamente senti come nella relazione affettiva si inneschi il processo di formazione di quello che Kant chiama "Io Penso", durante un idilliaco tempo sospeso in cui il puer per qualche anno  sprigiona una massiva voglia di conoscere ed imparare.

Partendo dall'analisi etimologica della frase "Coltivare i bisogni" mi sono accorta che nella mia esperienza lavorativa si tratta di una tautologia rispetto al concetto di "filosofia come esperienza di vita".

Ti accompagno nel ragionamento:

Coltivare deriva dal verbo latino "colo" radice non solo di coltura, ma anche di cultura.

"Bisogno" secondo la Treccani deriva da una parola germanica bisunnia che significa cura.

Ben sanno i praticanti filosofi di quanto sia curativa la filosofia, quindi potremmo ridefinire il titolo come "cultura della cura: la filosofia (che è cura) come esperienza di vita."

Insegnare ai bambini è "cultura della cura" ed è più che mai "esperienza di vita" perchè la scuola dai sei ai dieci anni è  il secondo spazio affettivo più importante dopo la famiglia.

Insegnare ai bambini è esperienza di vita anche per me maestra che rimodella la propria relazione didattico-pedagogica nel flusso evolutivo del singolo e del gruppo. 

E' esperienza di vita la relazione educativa, perché generativa di processi cognitivi, emotivi e fisici che sono la base del futuro modo di assaporare il mondo. 

Un maestro severo, prepotente o aggressivo rovina e intossica per sempre il rapporto col sapere. Come ben ci insegna Daniel Goleman, il blocco emotivo  blocca la conoscenza. 

Oserei dire che noi maestri dovremmo deontologicamente essere filosofi: non è forse nostro compito far sentire la passione per il sapere?  Non dovremmo mantenere sempre viva la meraviglia platonica? Non è forse nostro compito stimolare i bambini a centuplicare i loro "perchè?"?


Edgar Morin scrisse "meglio una testa ben fatta di una testa ben piena". 

Ho posto questa domanda ai filosofi pratici in ascolto: cosa significa avere una testa ben fatta? Ma soprattutto come si costruisce? 

Perchè questa, a mio parere, è una delle fondamentali sfide dell'insegnamento nella scuola: impostare una testa ben fatta.

I bambini procedono verso un'astrazione sempre maggiore per piccoli passi esperienziali. Dall'esperienza salgono ad arricchire linguisticamente il loro bagaglio logico ed ampliano le connessioni neuronali e quindi concettuali.

Detta così sembra ovvio e semplice, ma non lo è, quando cogli questo processo nel vissuto quotidiano.

In prima classe i bambini imparano ad impugnare una matita per scrivere le lettere e se sanno scrivere il loro nome, lo fanno per un apprendimento puramente passivo ed inconsapevole, grazie alla copiatura di un segno scritto da adulti di riferimento che danno loro rudimenti di scolarizzazione prima di cominciare la loro vera avventura a scuola.

Settimane per elasticizzare la mano ad una precisione artistica che faccia di una linea curva una S o una O comprensibili. Preparazione di biscotti a forma di vocale per generare in loro l'imprinting di una conoscenza esperienziale. E quanta fatica suonare assieme una consonante e una vocale, tanto che LA e AL perchè devo suonarli diversamente? Caspita l'inversione è un'operazione strategica, porta a generare parole come LAtte e ALbero e le immagini che appaiono nelle mente sono molto diverse. E se poi queste sillabe sono in mezzo o alla fine di una paroLA non è così scontato. LE riconoscono piano, con esercizio ripetuto. 

E il processo si compLIca quando moltiplico suoni, grafemi e aumentano il numero delle parOLE a disposizione. Ma di tutto questo sforzo da grandi cosa ricordiamo?

E impariamo le vocali A E I O U  e le prime consonanti L S. "Bimbi andiamo a scoprire come si possono unire queste letterine, combiniamole..

E allora ecco che  SALE, SOLE, LISA, LEI, LUI sono tutti significanti che arrivano con entusiasmo alla mente dei bambini, perché dietro a segni appaiono oggetti, persone, amici e parenti.

Un giorno chiamo una bimba di nome ELSA a leggere questa parola alla lavagna. Lei era una di quelle bimbe che già sapeva scrivere il suo nome il primo giorno di scuola, quindi mi aspettavo che rapidissimamente avrebbe detto "è il mio nome! C'è scritto ELSA!". Ed invece no: Analisi/paralisi. 

Si sforza. E' molto concentrata, passano almeno 30 lunghissimi secondi e poi con MERAVIGLIA grida " c'è scritto ELSA, c'è scritto ELSA, sono io!!!".

Questo evento non poteva passare sotto silenzio. Faccio notare a tutti i bambini lo stupore della compagna: solo in quel momento Elsa  si è resa conto dell'importanza di quelle letterine. 

Elsa ha elevato a consapevolezza cosa producesse il collegare grafemi+fonemi=significante/significato






In quel momento heideggerianamente parlando Elsa ha per la prima volta abitato il mondo attraverso il linguaggio. Ha colto il suo esserci e la sua pro-gettualità esistenziale. Elsa viene riconosciuta a se stessa e al mondo attraverso la scrittura che rappresenta sé.

E' stata un'emozione bella e piena, che la meravigliosa avventura della scuola mi dona ogniqualvolta un bimbo impara a leggere una parola nuova e scopre una significazione. 

Potete immaginare quanto stupore, quanta gioia ed allegria invadono le quattro pareti dell'aula ogni giorno?

Sposo il punto di vista di Hanna Harent quando dice che educare è una responsabilità civile e non solo.

Ho l'onore di vedere ogni giorno l'alba di un nuovo mondo!



                        (nella foto mio figlio)


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