Pratica sul Dubbio:tra ragione e sentimento



La Pratica sul dubbio è  uno strumento di lavoro per consulenti filosofici e formatori.
Se il Dialogo Socratico, la Philosophy for Children o i Café Philò[1] sono pratiche che basano il processo di confronto dialogico su pretesti tendenzialmente già passati, risolti e finanché puramente testuali, la Pratica sul Dubbio, come la pratica filosofica del Dilemma Training[2], lavora su una situazione personale ancora irrisolta, ma ovviamente non patologica.  Durante una Pratica sul Dubbio si analizzano casi di dubbio, che riguardano tematiche relazionali, valoriali, esistenziali in ambiente di lavoro.

La domanda aperta è per me fondamentale, perché permette di lavorare su una “verità soggettiva”, che guiderà il processo di pensiero anche attraverso il corso emozionale che lo incarna. Il protagonista del dubbio, che analizzerà coi compagni il proprio caso, utilizzerà uno strumento, a mio avviso, indispensabile per la ricerca di una strada da percorrere: il termometro emozionale (sfruttando le altre intelligenze che abbiamo: quella del cuore e quella somatica)[3].
La cornice che giustifica la volontà di trattare un caso aperto, non risolto, è etimologica: Se “filosofia” nelle molteplici accezioni che può avere,  è anche “amore per la ricerca riflessiva della verità”, allora  è giusto che la filia abbia un ruolo centrale nel processo di analisi del problema. Più in generale i sentimenti debbono svolgere un ruolo fondamentale nel processo di ricerca. Nel bene e nel male.
 La filia  è presente in veste di rispetto delle idee e delle identità di ciascun partecipante, nel sentimento di delicata curiosità che gli investigatori dovranno assumere per aiutare il protagonista a sciogliere il nodo logico, che aggroviglia il suo cuore e la sua esistenza in quel momento. I sentimenti del protagonista si manifestano durante il processo di disgregazione della molecola complessa che compone il dubbio. I sentimenti emergono alla fine della pratica in forma di gratitudine e riconoscimento.
Sarebbe ipocrita disconoscere che questa pratica produce effetti anche apparentemente negativi. Durante le ore (a volte fino a otto) che i praticanti filosofi passano assieme, si provano emozioni forti, anche contrastanti. La tensione energetica che un dubbio può portare con sé è generalmente sia di volontà di cambiamento sia di resistenza allo stesso, quindi nel fluire delle parole anche i cuori ritmano a battiti diversi. Tuttavia è emerso quasi sempre che al termine della pratica i partecipanti abbiano definito l’esperienza intensa e si siano generati solidarietà esistenziale, fiducia e coraggio per affrontare i mostri cupi dell’ombra umana.
Sarebbe disonesto non scrivere che alcuni partecipanti hanno ammesso d’aver provato noia.
Effettivamente questa esperienza  potrebbe essere definita “lenta”: l’ascolto e il silenzio sono fondamentali. 
Sono consapevole che questa pratica non sia per tutti! Credo che per vivere con soddisfazione una Pratica sul Dubbio, bisogna avere alcune caratteristiche: essere portati alla curiosità per i pensieri e le parole degli altri; essere in grado di fare silenzio interiore per mettersi nei panni degli altri; essere flessibili e attenti alle diverse prospettive esistenziali che offrono gli altri invitati. Per partecipare a questa esperienza filosofica bisogna  credere nel fatto che si può migliorare ascoltando i punti di vista altrui. Se sono presenti questi ingredienti si può fare filosofia con piacere!


[1] P. Raabe, Teoria e Pratica della Consulenza Filosofica, Apogeo Ed., 2006
[2] Cfr. Dilemma Training dell’America Philosophical Pratictioning Association, di Ida Jongsma
[3] CFr. Daniel Goleman è co fondatore del  Collaborative for Academic, Social, and Emotional Learning (www.casel.org)

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