Stare nella morte per orientarsi alla vita...

Non è facile scrivere di morte, ma penso sia l'evento che più richieda pratica, riflessione e soprattutto condivisione.

Domenica scorsa nella Sala da Tè di Cargo si è creata per me un'atmosfera mistica . Magica. L'incontro con Italo Bertolasi non è stato semplicemente istruttivo. Per me è stata occasione di conoscere una persona che senza laurea in Filosofia ha fatto suo l'insegnamento della Filosofia come stile di vita, lui sa cosa significano le pratiche filosofiche, perchè le ha agite, le ha viste, le ha incarnate. Lui è un vero Maestro.
Ascoltare Italo Bertolasi è stato come immergermi nelle acque dei fiumi sacri e purificarmi, è stato come scalare le montagne giapponesi e sentire l'immensa potenza naturale entrare dentro di me. E' stato come vivere indirettamente esperienze uniche e difficilmente ripetibili.
Italo (penso non me ne vorrà, anzi forse preferisce se lo cito solo col suo nome proprio, perché è una persona semplice, lontano dalle etichette, perchè profondamente radicato nell'etica) ci ha trasmesso importanti insegnamenti di vita:
-recupero del dialogo con Madre Terra,
-rilevanza spirituale della vita,
-rispetto per l'altro nella differenza di ogni singola individualità,
- rieducazione al selvaggio,
-riscoperta del coraggio di perdersi viaggiando,
- rinascita continua alla vita, imparando a guardare in faccia la malattia e la morte.


Di quest'ultimo mònito squisitamente filosofico vorrei qui lasciare una piccola traccia, a me prima di tutto.
Scrive il nostro ospite nel suo libro, di cui riporto a fianco la suggestiva copertina, "In Nepal la malattia non è mai fatto privato e chi si ammala è preso in cura da tutta la comunità". Partecipano al rito curativo mamme con neonati al seno, sfaccendati, bambini.

Potete immaginare una tal scena nel nostro ospedalizzante occidente? Impensabile.
Noi, si sa, releghiamo la malattia e poi la morte in spazi che certamente sono pubblici, ma non sono per tutti. I tecnici hanno competenza, la tecnica cura. L’amore fa fatica ad entrare. La magia non è contemplata, il miracolo è escluso! Perché?
E’ evidente che con termini quali “magia” e “miracolo” non voglio intendere un bisogno di suggestione cartomantica. Intendo più semplicemente esprimere l’idea che la malattia e la morte sono momenti salienti del nostro tempo esistenziale e necessitano di altro, oltre alla tecnica.
Noi non siamo solo res extensa. Siamo anima, energia, pensiero. E non lo dice la fattucchiera, ma la scienza.
La stessa scienza che ci cura negli ospedali. Quindi?

In India i morti sono vestiti di bianco, somma di tutti i colori, e da noi di nero, come il buio, il nulla, la fine? Perché? In fondo anche la religione cristiano-cattolica crede che questa non sia la "vera" vita. Eppure la morte (di cui la malattia ne è, in un certo senso, un'apparizione formale) ci fa paura. Perché? Cosa abbiamo perso, o cosa abbiamo introdotto, nel corso della nostra Storia, per averla così fortemente disconosciuta?

Perché non ci è permesso parteciparvi, come dovremmo?
Non è consuetudine stare con il malato o il morente, se non a poche ore stabilite, e dovendo anche chieder scusa agli operatori se intralciamo il loro spazio d'intervento, si deve uscire dalla stanza durante l'ora di visita dei Dottori,e forse proprio in quei momenti il paziente vorrebbe essere supportato nell'ascolto del referto..
Forse partecipare al dolore e alla fine di una vita toglie vita anche a noi? Non è così. Almeno non per tutti. Ma le regole degli ospedali per tutti sono uguali. E quando le trasgredisci, perchè lo fai, sei ovviamente in posizione di torto. Che brutto sentirsi nell'errore perchè vuoi stare o avere a fianco chi ti ama. I medici ti curano, al massimo di compatiscono, ma non ti amano e l'amore, non c'è dubbbio, cura.

Heidegger ci ha insegnato che noi "siamo per la morte", cioè possiamo scoprire la nostra vera essenza, rimanendo nella consapevolezza della nostra finitudine, il nostro esistere è già nella morte (banalmente le nostre cellule muoiono mentre noi viviamo!).
Platone fu il primo a sottolineare la rilevanza esistenziale della morte, anzi la Filosofia stessa per lui era esercizio di morte, i filosofi ellenistici praticavano l'esercizio di morte, prefigurandosi come sarebbe potuta arrivare, mantendendo sempre viva la consapevolezza della sua ineluttabilità e questa abituale riflessione serviva loro per trovare risposte al senso della propria vita.
Io credo che questo esercizio sia utile per dare una qualificazione importante alla vita che si conduce, ma penso anche che si possa giungere ad una medesima considerazione valoriale partecipando alla morte degli altri, dei propri cari soprattutto. Condividere insieme il tempo che intermezza la vita all’atto della morte può diventare un’occasione vitale.

Per quanto i tè filosofici dovrebbero essere occasione di dialogo e confronto, domenica sono stati pochi gli interventi del pubblico; la sala  da té  è stata piacevolemente satura di immagini, musiche e parole del nostro ospite.
 Pochi gli  interventi, ma buoni. E l’ultimo per me il più bello.
Succede quasi sempre che all’uscio della porta venga detta la parola più significativa… chissa come mai?!?!
L’intervento è stato di una signora sarda, donna d'isola, di mare e di montagna. Le sue unghie erano laccate di rosso, rosse le sue labbra. Occhi scuri e lucidi, mentre ci confidava il suo racconto sulla morte. Vestiva una gonna di pelle nera, sulla quale le mani si muovevano nervosamente, perché difficile era verbalizzare a persone sconosciute una confidenza così potente. Questa è una magia che accade abbastanza spesso durante le pratiche filosofiche. La vergogna, il pudore si manifestano, sì, ma passano, in un certo senso, in secondo piano, forse perché più forte diviene la voglia di condividere una verità esperita. Si diviene parola, si diviene esperienza biografica in nome della verità. Senza paura del giudizio o del pregiudizio, perché si è verità in quella narrazione di sé.
Ci ha raccontato che lei è praticante buddhista, ha scelto per la sua anima una religiosità che viene da lontano.
Ci ha raccontato che lei ha voluto accompagnare il padre alla morte, gli è stato accanto, ha pregato per lui nelle ultime ore che lo separavano da questa terra. E vedere sul viso del padre disegnarsi espressioni di serenità e pace, durante quelle ultime ore di coma, è stata la forza che le ha permesso di “lasciarlo andare”. Partecipare è stato fondamentale per gestire il lutto con una consapevolezza diversa. Stare nella morte di suo padre ha rafforzato in lei la certezza della sua religiosità: l'anima del mondo è una e si manifesta in tutti noi, vivi e morti. Suo padre era un Buddha tra i Buddha e da loro veniva portato a festeggiare la sua nuova vita.
Pensare così la morte non fa tristezza; commuove certamente, ma non fa paura.  Non allontana.

Io mi auguro di essere in grado di vivere le morti che dovrò necessariamente affrontare ( a partire dalla mia) con filosofia, come l’ha vissuta questa signora e mi auguro con tutto il cuore di non trovarmi ingabbiata a burocratiche leggi che si accaniscono su una vita che vuole e deve prendere un’altra forma.

Lo auguro per me e auspico che possa tornare ad essere una sana pratica filosofica per tutti, perché il corpo certo perisce, ma la vita deve poter andare avanti.

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